Porto X

Invito chi legge a pensare a qualcosa di cui ha bisogno o, semplicemente, a qualcosa che in questo momento desidera. Una volta pensato la cosa, immaginiamo di volercela procurare.

A questo punto, dove va immediatamente il nostro pensiero? Credo che la risposta sia abbastanza univoca per la maggior parte degli esseri umani che hanno valicato l’infanzia: al denaro necessario per ottenerla.

Perché? “Ovvio, -direte voi- per ottenere quello di cui abbiamo bisogno occorrono soldi”. E per quanto saremmo tentati di negarlo a noi stessi, ciò vale non solo per ottenere i cosiddetti beni materiali, ma anche per sostenere i bisogni all’interno delle relazioni: senza denaro non posso invitare a cena o al mare la persona che mi piace; senza denaro non posso comprare lo zainetto di marca o il regalo di compleanno ai miei figli; senza denaro non posso fare quel viaggio con gli amici che tanto sognavo, e così via. Insomma, senza denaro sono precluse tutte, o quasi, le possibilità di vivere come si vuole. Ma è veramente così che funziona? Io credo di no. Personalmente credo che questa sia una forma mentis destinata essenzialmente ad alimentare un sacrilego stillicidio di occasioni mancate.

Questo automatismo mentale -ed emotivo- è eclatante; figlio della programmazione culturale sistemica, questo automatismo è stato indotto in noi -e costantemente autoalimentato- al fine di depistare il nostro essere dalla verità delle cose, per porci di fronte a limiti insormontabili che amplificano il nostro senso d’inadeguatezza, d’impotenza e di sudditanza di fronte ai bisogni.

In sintesi, questo automatismo depaupera il senso del valore di sé.

Perdiamo il vero senso del desiderare (in senso magico) ogni volta che spostiamo la nostra mente dalla cosa desiderata al denaro necessario per ottenerla. Il problema di fondo non è più quindi rappresentato dalla mancanza di quella determinata cosa, ma diventa la mancanza del denaro necessario ad ottenerla. “E certo -direte voi- senza denaro come ottieni quello di cui hai bisogno o desideri? Il problema e tutto lì!” Ne siamo proprio sicuri? Mi spiego…

Se il valore di tutte le cose è, nel nostro subconscio, automaticamente e inesorabilmente agganciato ad una certa quantità di banconote, il focus della nostra mente viene depistato, e vira da un bisogno reale ad uno fittizio o -che è peggio- virtuale.

Così, inevitabilmente, il “valore di sé” si sposta, e diventa direttamente proporzionale alla capacità di procurarsi denaro.

Ma cos’è veramente il denaro? Evidentemente lo abbiamo dimenticato.

Negli attuali manuali di economia ancora si legge che esso nasce (in realtà non nasce ma è stato creato) come “mezzo per facilitare gli scambi di beni e servizi”. Abbiamo quindi un mezzo (il denaro), un fine (che è lo scambio), ed un bisogno da soddisfare (ossia l’ottenimento dei beni/servizi oggetto dello scambio).

Ripetiamolo: il denaro nasce come mezzo per facilitare un fine, che è lo scambio di cose materiali o di servizi.

Attenzione siore e siori, in questa mano c’è il mezzo, in quest’altra mano c’è il fine; dov’è il mezzo? Dov’è il fine? La mano è più veloce dell’occhio siore e siori!”.

Senza addentrarmi troppo negli impervi anfratti della storia del denaro (o del denaro nella Storia), è immediato osservare quanto tale paziente, perverso giochino delle tre carte abbia funzionato: ad oggi il denaro ha ribaltato completamente, usurpandola, la nostra coscienza, richiamando  tutta l’attenzione della nostra mentre a sé, da mezzo di facilitazione dello scambio a fine dello scambio stesso, un fine molto ambito e universalmente riconosciuto. E in questo inesorabile dirottamento della mente (un dirotta-mente, mi verrebbe da dire) dal fine (ciò che desideriamo o di cui abbiamo bisogno) al mezzo per ottenerlo (il denaro), in un vero e proprio e quanto mai abile processo di autodepistaggio, il mezzo è diventato realmente il fine del nostro agire. E, pur rammentandoci che di un fine transitorio si tratti (perché finalizzato sempre a ciò di cui ho bisogno) il denaro ha finito con l’assumere un ruolo chiave in quasi tutte le nostre scelte, in qualunque aspetto della vita. Il denaro, abbagliandoci col suo falso luccichio distraente, è diventato il velo spesso e indistricabile dietro cui si celano i nostri veri bisogni, di contro sempre più opachi e sbiaditi.

Facciamo un esempio concreto e alla portata di tutti: se ci sentiamo invasi da un’incontenibile voglia di mangiar carote, la nostra mente non va alla terra da cui son solite svilupparsi tali deliziose radici arancioni, ma al reparto ortofrutta del supermercato, esposte in confezioni di plastica da 10 pezzi al costo di euro 3,99 iva inclusa. Insomma, il concetto di carota (che è cosa reale) nella mia mente non corrisponde più al concetto di terra (sempre cosa reale) ma a euro 3,99 iva inclusa, che è concetto privo di qualsiasi senso di realtà. È atroce! Questa la triste demenza precoce di tutti noi che, con ironica coerenza, veniamo non a caso definiti dal sistema col termine di “consumatori”. Perché questo siamo, consumatori e non “realizzatori” di quanto ci occorre per soddisfare i nostri propri bisogni.

Chiunque, con una breve ricerca, può rendersi conto di come le politiche economiche “dei governi” (uso volutamente il plurale per non sembrare eccessivamente complottista alludendo -per carità- ad un governo unico mondiale), degli ultimi 150 anni hanno avviato una progressiva virtualizzazione del valore del denaro, sganciandolo piano piano, perché potessimo abituarci -ci si abitua facilmente a tutto, ahimè!-, da qualsiasi reale controvalore.

Le famose note di banco (da cui il termine “banconote”) che gli orefici ebrei e non (i primi banchieri) rilasciavano come ricevuta dei depositi in oro, argento e altre pietre preziose, iniziarono quasi subito a diventare oggetto di transazioni speculative attraverso pratiche subdole come la riserva frazionaria (meccanismo tuttora in voga nel sistema bancario per l’erogazione di prestiti) che furono alla fine del diciannovesimo secolo assurte a modello di un progetto di controllo dei governi e della società che tuttora condiziona come non mai il nostro vivere quotidiano, conducendoci ad una totale assenza di corrispondenza tra riserve auree e denaro, espressione di un valore esclusivamente virtuale. Progetto che sta per arrivare al suo apice con la totale eliminazione del contante circolante e l’imposizione della moneta digitale come unico strumento di scambio. Invito a tal proposito alla visione dell’interessantissimo docufilm “Thrive” del 2009, disponibile in rete, immagino ancora per poco.

Una delle conseguenze di questo perverso gioco mentale da incalliti consumatori è che abbiamo, noi esseri umani del ventunesimo secolo, e i nostri figli ancor di più, completamente perduto il senso vero dello scambio (per facilitare il quale, ripeto, il denaro è stato creato). Ci troviamo in un punto in cui ogni scambio viene tendenzialmente vissuto come mezzo per ottenere denaro: cedo la proprietà di una cosa o di un servizio solo se ottengo una contropartita in denaro ritenuta equa. Ed ecco il ruolo chiave che il denaro ha nelle nostre scelte di vita. Basti pensare che ancora oggi esercitiamo una professione che permetta di guadagnare denaro in misura adeguata per soddisfare i propri bisogni e non quella che permette -semplicemente- di soddisfare i propri bisogni. Lo so, e lo comprendo, la differenza non è di immediata comprensione. Farò quindi un altro esempio.

Non posso permettermi di fare il lavoro che mi piace perché non riesco a pagarci le bollette!”. Sfido chiunque a mettere in discussione la logica pragmatica sottostante una tale, asettica nella sua banalità, regola del vivere con i piedi per terra (anche se l’espressione “con un piede nella fossa” rende meglio l’idea). Ma a pensarci bene -consci che parole ed espressioni che usiamo rivelano tanto di noi e della nostra attitudine trasformativa della realtà-, il concetto di lavorare per pagare le bollette, in qualsiasi declinazione questo concetto venga esternato, è rivelatore di un preciso modo di essere: mi metto al servizio di un’attività quotidiana intensiva usurante (il lavoro) ai comandi di qualcuno (il capo a cui devo dare conto), per poter pagare un debito potenziale riscosso da un ente terzo tramite le cosiddette bollette.

Il punto a cui voglio arrivare è questo: la nostra mente perde di vista la realtà delle cose dal momento in cui dimentica -continuando a seguire il nostro esempio- il bisogno di fonti energetiche di sostentamento, energia elettrica o gas che sia, relegandole chissà dove ai margini di un visus molto limitato, focalizzandosi invece sulla necessità del pagamento di un debito che andrò a contrarre. Anche in questo caso, si confonde il fine (l’energia elettrica che ci è necessaria) col mezzo (il denaro), perdendo di vista la sostanza reale delle cose, ossia che in realtà si sta piegando, accartocciandolo, il valore di sé in cambio del denaro. Non si è concentrati sul bisogno di energia elettrica in sé, come strumento al proprio servizio e in ausilio, tra le altre cose, al processo di sviluppo dell’esistenza propria e di chi ci circonda; e non si è affatto concentrati sul senso del valore di sé.

Il paradigma naturale:

Io vivo-quindi mi occorrono delle risorse (cibo, energia, casa) per vivere-quindi mi occorre il denaro per ottenerle

diventa:

io piego me stesso-per ottenere denaro-per pagare le risorse per sostenere il mio piegare me stesso-per ottenere denaro-e così via…

Spostando il focus della mente sul proprio essere vivo, e sui bisogni in sé, il denaro non solo ritorna alla sua funzione originaria, ma si ridimensiona percettivamente come solo una delle tante variabili utili ad ottenere ciò che occorre per soddisfare i propri bisogni. Dal momento che si rifocalizza la mente esclusivamente tra la cosa di cui ho bisogno e il valore di sé, inizio ad ampliare la mia percezione circa le innumerevoli modalità con cui questo bisogno può essere soddisfatto, e di cui la variabile denaro non solo non è principale artefice ma addirittura accessoria e non determinate.

Spostando il focus dal denaro al valore di sé, insomma, tutto acquista un senso reale e giusto: passo da “piego me stesso al (quindi sono servo del) denaro”, a “Io Sono il mio Valore, e il denaro mi è servitore, né l’unico, né il più importante”. E questo rinnovato ruolo di servitore non può che nobilitare il senso stesso del denaro.

Se solo provassimo, con un costante ri-allenamento delle nostre percezioni, ad eliminare davanti agli occhi già annebbiati della nostra mente il velo mendace del denaro, allora vedremmo che tra noi e la cosa desiderata c’è solo il senso del valore di sé: l’unico vero concreto e tangibile valore a misura di tutto ciò di cui crediamo di aver bisogno.

di Valentino Infuso