R’Infuso
rubrica di poetosofia visionaria e magia neorealistica
da risorseggiare (sempre) con lentezza

 

R’Infuso delle 17
di mercoledì 24 dicembre 2025

 

Nel vulcano di vimini, ammassati alla r’infusa

i tondini di legno attendono l’eruzione,

di lava geometrica, di matematico fuoco.

Ciascuno è desiderato,

per esser declamato

in ballo c’è felicità

d’un ambo, un terno, cinquina o cartella piena.

Ogni numero un archetipo, ogni archetipo una storia

e tante storie sono da cantare all’uditorio,

ciascuno la compone a modo suo,

verità celate,

racconti d’umana esistenza.

E numero dopo numero, ce la raccontiamo…

numero dopo numero, ce la giochiamo.

Questa è la storia ch’io ora vi canto.


TOMBOLA ERETICA

In principio: 1 l’Italia! Bellissima terra, questa italica, patria di soprusi e violente soverchierie di Stato, che per ricordare la sua illegittima “legalizzata” proprietà su cose e persone arriva a strappare a criatura  2 (il bimbo o la bimba), dalle braccia dei genitori che, come a jatta 3 (il gatto) che difende i propri cuccioli, non possono che soccombere sotto le soverchierie di questi puorci 4 (i maiali) di regime, svuotati nell’anima e privi di qualsiasi buonsenso e sensibilità, emissari a mano 5 (la mano) armata, figli di una vagina 6, chella che guarda ‘nterra, tutta slabbrata. A colpi di scuppetta 7 (il fucile), andrebbero affrontati. E allora vedremmo chi arriverebbe a spuntarla. Ma preferiamo per quieto vivere pregare 8 a Maronna (la Madonna), archetipo della madre primordiale, così tanto invocata, così tanto tradita, in difesa della nostra figliata 9 (la prole), che in fondo c’insegna che quando c’è l’amore c’è tutto, non serve altro, anche se per sfamarla ci rimanesse sempre e solo la solita manciata e fasule 10 (i fagioli), e niente più. E allora ricordiamoci che sono solo dei luridi 11 surice (topi) di fogna, vestiti da surdate 12 (i soldati), tristi figuri privi di autorità propria, carne da macello votati a 13 Sant’Antonio, e mbriachi 14 (ubriachi) di una volontà non propria. Spesso si tratta di guagliuni 15 (ragazzi), che piaccia o no, eredi e auspicio di mondi, vecchi e nuovi, illusi e presi p’o culo 16 (il deretano) da sempre la parte del corpo più d’ogni altra schernita e insultata, fatta oggetto di intime fantasie ma compagno di liberatorie catarsi –, fottuti perché addotti, e indotti da falsi ideali ad azioni nefaste. Ma che disgrazia 17 (la disgrazia) questa, quella che si fugge, quella che non si vorrebbe mai; quella che quando capita ti devasta; quella che aiuta a crescere solo se siamo disposti più o meno metaforicamente a buttare o sanghe 18 (il sangue), prezioso fluido vitale e sacro veicolo di appartenenze, moneta di scambio per il nostro esser creduloni delle nostre stesse convinzioni, che solo una resata 19 (la risata), la più grande medicina, potrà seppellire, nei bagordi di una grande festa 20  (la festa)

, di cui c’è sempre bisogno ma che un pedante senso del dovere non ci permette di godere, per non rischiare di vedere la nostra verità, cruda e splendente, come una bella 21 femmena annura (donna nuda), poesia in forma umana che mette soggezione per la sua potenza di fronte alla nostra inadeguatezza, diventando merce di scambio, questa verità, fino a rendere pazzi 22 taluni, scemi 23 altri. Preferiamo cadere nelle trappole di un meccanismo sorvegliato da rassicuranti gguardie 24 (le guardie) d’ogni specie, eunuchi che non hanno idea di quel che guardano, puttane in divisa che per quattro spicci son disposti a fare da guardia a la qualunque. Ma poi viene 25 Natale, giorno della chimera, giorno d’affannno, giorno che tutto fa dimenticare; anche 26 Nanninella (diminuitivo del nome Anna) lo pensava mentre col suo cantero 27  (il vaso da notte), emblema di pigra utilità, si avviava al patibolo, strizzandosi per scaramanzia con le mani e zizze  28 (il seno), belle e buone, piccole o grandi, naturali o rifatte… evviva le zizze! E ce ne sbatte il cazzo, 29 o pate d’e criature, di cui ancora non abbiamo compreso la sacra funzione, e da cui tutti noi, in forma di ansiosi semini, siamo usciti sparati dalle 30 e palle d’o tenente, come quelle di un cannone. Ma alla fine 31 o padrone ‘e casa (il proprietario di casa), padrone che poi non è, se non delle sue illusioni di possesso, viene a reclamare il conto, e noi, come 32 o capitone (il capitone) che sguscia via per sfuggire agli altrui appetiti – ne val della sua vita, ne val della nostra – ci nascondiamo in cerca di una via di fuga, nella speranza di arrivare almeno a 33 ll’anne ‘e Cristo (gli anni di Cristo), povero cristo frainteso e ancora deriso, tenuto segregato da melliflui sacerdoti con la brama di potere; e poveri cristi noi, con 34 a capa (la testa) che ci pesa, perché coronata di spine della speranza, perché confusa tra mille cose giuste e sbagliate che le svolazzano intorno come aucielluzzi 35 (uccellini), e stordita da assordanti e roboanti castagnelle 36 (petardi) nel capodanno del nostro disagio. Fuggire da questa società, isolarci, come 37 o monaco, o come eremiti, ma non ne abbiamo ancora il coraggio e preferiamo ‘e mmazzate 38 (le botte) che questo sistema ci dà; preferiamo ‘a funa ‘nganna 39 (la corda la collo) di un meccanismo oppressivo che ci fa scendere alla fine 40 a paposcia (guallera, ernia inguinale) precipitandoci in una noia e paranoia del vivere a cui reagire urlando: “a le armi!”. E prendiamoli allora questi curtielli 41 (i coltelli)! non prima però di farci ‘nu bellu 42 cafè (il caffè), avanti alla tv che, come una 43 Donna Pereta al balcone, ci intrattiene e ci conforta con la sua dose quotidiana di angoscia e cazzatelle. Queste sono le nostre mentali ccancelle  44 (le carceri), la nostra prigionia, e non basta stordirci, drogarci, inebriarci di vino 45, o inseguire i denare 46 (i denari), fino a che non siamo 47 muorti (morti), finché non ci accorgiamo che siamo già 48 muorti che parlano, convinti di una vita che in realtà è già stata fatt a pezzi, come 49 piezz’e carne (pezzi di carne), nel perpetuo inseguimento del nostro pane 50 quotidiano, nel ciardino 51  (il giardino) illusorio dell’Eden, la fittizia terra promessa, che possa farci finalmente da mamma 52, una mamma in cui vivere, in cui diventare viecchi 53 (vecchi), in cui esprimere noi stessi, esibendo il nostro talento nel viale affollato della vanità, per alla fine porgere 54 o cappiello (il cappello) in cui codici digitali, ascoltando la museca 55 (la musica) della nostra maschera possa distrattamente elargirci un like sotto al post nostro esistere, per rimandare quella necessaria caruta 56 (la caduta) nel baratro del Niente, il cui pensiero ci fa sentire già deformi, sfuggendo la Verità, come ‘o scartellato 57 (il gobbo) sfugge via dalla propria stessa immagine. Ma non ci sovviene il pensiero che ci abbiano forse fatto 58 o paccotto (l’imbroglio)? Che sia tutto un grande imbroglio? Ma certo! Solo che, con 59 e pile (i peli) ritti, la pelle d’oca e i denti serrati, continuiamo a perpetuare il nostro lamiento 60 (il lamento), come 61 o cacciatore armato di tutto punto incapace di catturare qualsivoglia preda, frustrato e angosciato dalla propria inspiegabile sfortua – così la chiama -, finché, uno di fronte all’altro, non ci puntiamo il fucile e finiamo 62 muorti accisi (morti ammazzati). Eppure la nostra vita è lì, sull’altare, bellissima, come una sposa 63 che ci promette di non lasciarci mai, nella fortuna e nella malattia. Ma la Morte, pietosa, ci copre con la sua elegante sciammèria 64 (il cappotto delle grande occasioni), spegnendo coitamente le nostre illusioni. Non ci resta che 65o chianto (il pianto), per noi stessi, per la nostra miseria, per il nostro sconforto, intimo, sussurrato, un po’ infimo, come solo ddoie zetelle 66 (due zitelle) pettegole sanno riportare sparlando di chi non c’è. E siamo sempre noi a non esserci, a nasconderci, pur di non sentirci fuori luogo come un totano int’a chitarra 67 (la seppia nella chitarra), e stare nelle nostre illusioni piuttosto che finire nella zuppa cotta 68  del nostro dolore, della nostra insoddisfazione e frustrazione, evitando di vedere tutto per come è, sott’e’ncoppo 69 (sottosopra), evitando, sennò lo sentiamo, ci viene il vomito; così non ci resta che chiuderci nel conforto del nostro personale palazzo 70 di cristallo torbido, in cui, se riusciamo a specchiarci abbassiamo gli occhi per non vedere l’ommo ‘e merda 71 (l’uomo senza princìpi) che siamo diventati; eppure ci fa ancora meraviglia 72 (la meraviglia) la bellezza che ancora siamo capaci di cogliere, fuori da questo spitale 73 (l’ospedale) per anime ammalate privo di soccorso pronto; fuori da questa rotta 74 (la grotta) buia in cui rifuggiarsi per scappare invano dai predatori invece che affrontarli – finalmente! –, come tanti Pullecenella 75 (Pulcinella) che fuggono inutilmente dalle fatiche a cui li sottopone il padrone, finendo col faticare il doppio. Eppure, la funtana 76 (la fontana) della conoscenza è inesauribile, basta cercarla. E non valgono le tentazioni di duje diavule 77(i diavoli) per allontanarci dalla nostra essenza, anelata e bramata, come il cuore di una bella figliola 78 (la bella ragazza) ci spinge a rubarne l’amore, come uno scaltro mariuolo 79 (ladro) ruba da una cassaforte inespugnabile. Cominciamo dalle parole, come magia sgorgante dalla nostra vocca 80 (la bocca), che crea la realtà, che crea bellezza in questa realtà, che smette di emettere maleodoranti concetti di povertà e ricopre di sciure 81 (i fiori) una bella tavula ‘mbandita 82 (la tavola imbandita) sotto o maletiempo 83 (il maltempo) a cui ci siamo votati, con le nostre personali autolesioniste mentali scie chimiche. Edifichiamo la nostra chiesa 84, in cui anelare a qualcosa di più, al nostro stesso spirito divino, che da aneme d‘o priatorio 85  (le anime del purgatorio) che patiscono le pene in un’arida terra di mezzo, ci renda artigiani dell’estasi nella puteca  86 (la bottega) della nostra mente superiore, debellando tutte perucchie 87 (i pidocchi) del pensiero, e godendo dei nostri veri talenti, plasmati e coltivati, come squisiti casecavalle 88 (i caciocavalli) lasciati a stagionare per intensificarne aroma e consistenza. Solo così potremmo riuscire a scacciare la vecchia 89 idea di noi stessi e creare un mondo senza… a paura 90.


Valentino Infuso
 

 

Immagine: “vulcano di vimini”

 

**********************************************************************************************************************************

 

ricordiamo la nuova pubblicazione

L’INFUSO
scritti di filosofia visionaria e neorealismo magico

di Valentino Infuso
edito da Edizioni Sovversive Porto X
E’ possibile richiedere il volumetto direttamente al Porto o via mail: info@porto-x.com
Il Valore di questo libro è in chi lo legge
per saperne di più sulle altre pubblicazioni
Edizioni Sovversive
clicca qui

Lascia un commento